domenica 31 maggio 2015

La retorica della guerra

"Le motivazioni per cui gli uomini muovono guerra sono sempre le stesse: territorio e supremazia. Il resto è solo retorica…
Non cercare nobili ideali in questa strage. Qui non ci sono buoni e cattivi"

Di questi tempi sono queste le parole che mi vengono in mente. Le pronuncia lo Scuro nell'albo Il fronte di pietra, il terzo della collana semestrale a fumetti Lilith di Luca Enoch, pubblicato a novembre del 2009 per la Sergio Bonelli Editore. La storia è ambientata durante la Prima Guerra Mondiale prima sul fronte carnico e poi carsico e ne fa rivivere tutto l'orrore. Ma sembra che opere come questa non servano a nulla. Una settimana fa, il 24 maggio, si è celebrato l'ingresso in guerra dell'Italia. A Trieste grande schieramento di forze da parte dell'Esercito Italiano in Piazza Unità, a due passi dalla via intitolata a Luigi Cadorna, il macellaio che diresse quello stesso esercito un secolo fa. A Gorizia, il giorno prima, un corteo di Casapound sfilava per le vie cittadine per rivendicare l'italianità di quelle terre. I fascisti del terzo millennio leggono la Storia a loro piacimento, come fecero d'altronde quelli del secondo, accompagnando e accentuando con la violenza il processo di italianizzazione di Trieste e Gorizia imposto dal Regno d'Italia a partire dal 1918.
Quanta ignoranza nasconde tutta questa retorica! I miei bisnonni cominciarono la Prima Guerra Mondiale un anno prima, nel 1914. L'Impero Austroungarico, nel quale erano nati, li aveva arruolati nelle fila del suo esercito e li aveva inviati a combattere in Galizia, contro i Russi. Tornarono tutti, per loro fortuna, qualcuno parecchi anni dopo quando ormai lo si dava per morto, e ritrovarono un nuovo padrone: i talians! Mia nonna, nata anch'essa austroungarica, ha sempre chiamato sua cognata Maria con l'appellativo di "la taliane", perché veniva da Palmanova, cittadina anch'essa friulana, ma appartenente al Regno d'Italia già dal 1866, dopo che l'Italia sconfisse l'Austria nella Terza Guerra d'Indipendenza. Ancora oggi alcuni chiamano la Prima Guerra Mondiale con l'espressione Quarta Guerra d'Indipendenza, perché, secondo loro, si completò il processo di liberazione degli ultimi territori italiani rimasti sotto l'Austria: Trento, Trieste e Gorizia. Ma molti non sanno che da queste parti, Trieste e Gorizia, le genti si son mescolate per secoli. Minoranza e maggioranza linguistica son stati concetti fluidi e anche poco significativi. Ma utilizzati ad arte dai politici per giustificare le guerre. Gorizia, nel 1915, aveva circa 30.000 abitanti, di cui meno di metà italiani (comprendendo in questo gruppo anche i cittadini di madrelingua friulana), 11.000 sloveni, 3.000 di lingua tedesca e 2.000 di altre nazionalità. La sua provincia si estendeva dalla bassa pianura friulano-isontina (italiana) a ovest fino ai colli e ai monti a est, nord-est (sloveni). Ed era così da secoli. Che cosa c'era quindi da liberare? E soprattutto da chi? Chiedetelo agli sloveni finiti sotto il Regno d'Italia dopo la Grande Guerra. Chiedete loro come si videro restringere i propri diritti, la libertà di esprimersi nella propria lingua. Chiedete cosa fecero i fascisti in quelle terre. Le risposte non saranno consolatorie.



In contemporanea al corteo di Casapound del 23 maggio, un corteo multiculturale di antifascisti sfilava attraverso le vie di Gorizia. Spiccava l'assenza di tanti partiti, sindacati e associazioni che si mostrano antifascisti solo durante le manifestazioni delle ricorrenze ufficiali. Lo sdoganamento di Casapound è ormai nei fatti. E la retorica della vittoria e dell'italianità che ha sfruttato in questi giorni gli ha giovato. E tutto questo mi provoca molta tristezza, perché per me essere antifascisti è una cosa naturale, semplice, data. Non c'è niente da spiegare, così come non ti domandi perché respiri: lo fai e basta. Tranquillamente. Mi domando cosa direbbero mio nonno Arturo, Primo Levi, Italo Calvino, Cesare Pavese, Elio Vittorini o Beppe Fenoglio. se, per assurdo, si affacciassero in questo mondo. Niente di buono, credo. Ma forse si potrebbe cogliere l'occasione per invitarli a raccontare ancora le loro storie. Ne abbiamo tanto bisogno.

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