Ancora oggi è nitida nella mia mente l'immagine che mi ritrae attonito mentre, seduto a tavola all'ora di pranzo, ascolto la notizia del suicidio di Primo Levi annunciata dal telegiornale. Dalla sconfinata eredità culturale che ci ha lasciato, estraggo questo frammento di un'intervista concessa a Radio Due il 4 ottobre 1982, per ricordare, a distanza di trenta anni dalla sua morte, come il mestiere di chimico e quello di scrittore fossero indissolubilmente intrecciati.
"La chimica esteriormente mi ha fornito i mezzi per vivere; interiormente credo che mi abbia insegnato anche a scrivere in un certo modo. Ho spesso pensato che il mio modello letterario non è né Petrarca né Goethe, ma è il rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in laboratorio, e che deve essere chiaro e conciso, e concedere poco a quello che si chiama "il bello scrivere". Non so bene se questo mio programma e progetto si ripercuota in quello che scrivo, ma la mia intenzione è questa. Io sento il mestiere di scrivere come un servizio pubblico che deve funzionare: il lettore deve capire quello che io scrivo, non dico tutti i lettori, perché c'è il lettore quasi analfabeta, ma la maggior parte dei lettori, anche se non sono molto preparati, devono ricevere la mia comunicazione, non dico messaggio, che è una parola troppo aulica, ma la mia comunicazione. Deve essere un telefono che funziona il libro scritto; e penso che la chimica mi abbia insegnato queste due doti della chiarezza e della concisione."
Nessun commento:
Posta un commento