La bambina ne aveva paura, si teneva a
distanza da quell'uomo che non aveva mai visto e che ora stava lì
davanti a lei sulla strada del paese. Non capiva perché la sua mamma
e la sorella maggiore lo abbracciassero e lo baciassero piangendo.
Lei invece piagnucolava e quando lui, con quei vestiti tutti logori e
il sacco sulle spalle, si era inginocchiato sorridente tendendole la
mano, si era ritratta chiudendosi nella diffidenza dei suoi quattro
anni. Ci erano volute ore, dopo tante lacrime di gioia, abbracci e
pacche sulle spalle che i compaesani avevano elargito festosi ad
Arturo, questo era il nome dell'uomo, perché la piccola riuscisse a
stargli vicino senza averne timore. Ad un certo punto, mentre tutti
sedevano ad una tavola con cibo e vino fresco, la mamma era riuscita
perfino a metterla sulle ginocchia di quell'uomo il cui grande
sorriso era riuscito a tranquillizzarla. “Ora il papà starà
sempre con te e non ti lascerà più” le dicevano tutti, e lei
cominciava a crederci, cominciava ad abituarsi a questo uomo alto e
smagrito, con dei grandi segni di sofferenza attorno a degli occhi
stanchi ma luccicanti di felicità. Il tate era tornato dalla
guerra. Era spossato da un viaggio durato mesi, iniziato nel gelido
febbraio polacco e conclusosi nel caldo settembre friulano del 1945.
Aveva rischiato la vita più volte durante il lungo cammino: per il
freddo, per l'ostilità verso gli italiani dimostrata da alcuni, per
l'attraversamento di fiumi pericolosi.
Ma la parte più terribile
della sua esperienza era avvenuta prima, quando, insieme ai suoi
commilitoni artiglieri, era stato circondato da truppe tedesche l'8
settembre del 1943. Erano in Grecia, li avevano catturati e fatti
salire dopo pochi giorni su un treno. In un carro bestiame aveva
raggiunto la Polonia attraverso un viaggio spaventoso durato un mese.
Tanti soldati non ce l'avevano fatta: le guardie tedesche aprivano i
portelloni quando il treno si fermava in qualche stazione e ne
ritiravano i cadaveri. Arturo riuscì ad arrivare vivo a destinazione
grazie anche al suo fisico temprato dal lavoro nei campi. Giunsero a
Bismarckhütte,
un tetro campo satellite di Auschwitz. Li chiusero dentro squallide
baracche dalle quali uscivano solo per recarsi in una fonderia alla
quale il campo era annesso. Costruivano cannoni
per il Führer,
lavorando come schiavi fino a sera. Tornavano spossati nelle baracche
dove trovavano patate gelide e acqua sporca. Arturo, nonostante la
sua resistenza, si ammalò dopo alcuni mesi. Rischiò di morire se
non l'avesse aiutato un altro prigioniero, un medico milanese che lo
curò tenendolo in infermeria più di quanto gli aguzzini nazisti
avessero voluto.
Eppure, per dare una fine a questo tormento, sarebbe bastato
accettare le proposte dei tedeschi e dei militari fascisti venuti fin
lassù apposta per convincerli. Dicevano loro che sarebbero tornati
in Italia per combattere con i patrioti di Salò. Quasi nessuno diede
ascolto a quelle offerte. Molti morirono e l'Italia non la videro
più. Arturo invece si riprese dalla malattia e tenne duro in
fonderia fino a quando l'Armata Rossa liberò il campo.
Non
so a cosa pensasse per poter resistere. Di certo, la sua mente andava
spesso a quella bambina: pensava che non avrebbe potuto abbandonarla
senza donarle un nuovo sorriso.
Quella bambina è mia madre.
Quella bambina è mia madre.
Era da un pò di tempo che avevo letto il tuo post ma non avevo avuto il tempo di scriverti. In un piccolo spazio di tempo ti scrivo per ringraziarti per la storia che hai raccontato e per le parole scelte che trovo misurate e toccanti. Oltre alla passione per Ken Parker abbiamo un'alta cosa in comune: anche io ho un nonno che ha avuto la disgrazia di essere deportato in un campo di concentramento in Germania ed è uno dei pochi fortunati che è tornato.
RispondiEliminaOrmai è morto da molti anni e purtroppo non c'è stata occasione di poter parlare con lui per sapere qualcosa di più... hai fatto bene a lasciare questo scritto, bisogna tramandare le storie che conosciamo di quel periodo. E' un vero peccato che scompaiano con chi le ha vissute. Conoscere è sempre il miglior antidoto per far si che certe cose nion accadano più.
So long...
Mi fa molto piacere il tuo commento, caro vagabondo. Concordo con te: bisogna cercare di diffondere il più possibile storie come queste affinché la gente che non le ha vissute o conosciute, sappia che cosa è successo pochi decenni or sono nella nostra Europa. Non è detto che sia sufficiente per evitare che capitino ancora, ma non raccontarle è veramente un delitto... se non altro alla memoria di coloro che l'hanno vissute sulla propria pelle...
EliminaSo long...
Sai che è bellissima questa storia? L'hai raccontata in modo splendido, mi ha emozionata.
RispondiEliminaRoberta
Grazie Robi, è un piccolo segno per ricordare mio nonno Arturo, che ho conosciuto a malapena perché è morto, anche per le conseguenze di ciò che ha vissuto in Polonia, quando io avevo solo 4 anni.
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