lunedì 28 febbraio 2011

Ancora sulla rivoluzione

Disegno di Chappatte
Patrick Chappatte è un figlio del mondo: nato a Karachi nel 1967 da madre libanese e padre svizzero, è cresciuto a Singapore e in Svizzera. Fa il cartoonist e l'illustratore: ha lavorato per il New York Times e Newsweek. Ora disegna per il quotidiano svizzero di lingua francese Le Temps e quello di lingua tedesca Neue Zürcher Zeitung e infine per l'International Herald Tribune. Un biglietto da visita del tutto rispettabile.
Ho conosciuto il suo lavoro grazie al settimanale Internazionale: spesso, nell'ultima pagina (quella riservata alle vignette tratte dai giornali di tutto il mondo) viene proposto uno dei suoi graffianti "editoriali disegnati".
Nel numero 886 di questa settimana, il giornale diretto da Giovanni De Mauro esalta ancor di più il talento del cartoonist svizzero-libanese, allegando, a mo' di inserto composto da 3 grandi pagine, un suo reportage a fumetti.
Il tema della rubrica Graphic Journalism è, ancora una volta, la rivoluzione tunisina: dopo l'efficace reportage della settimana scorsa ad opera di Othman Selmi (di qui ho parlato qui), Chappatte realizza la sua corrispondenza andando di persona nelle città del centro-sud della Tunisia, dove la rivoluzione è iniziata. Lo stile è simile a quello di Joe Sacco: Chappatte fa parlare direttamente i protagonisti, esponenti dell'opposizione e semplici cittadini, che non vedono l'ora di raccontare i loro problemi al mondo dopo 23 anni di silenzio imposto dalle autorità.

Disegno di Chappatte


La voglia di libertà, di democrazia, di una società giusta e non corrotta emerge chiaramente dalle parole dei giovani, che sono per lo più disoccupati e che hanno cercato spesso fortuna imbarcandosi in una bagnarola alla volta dell'Italia.

Disegno di Chappatte

Curiosando sul sito di Chappatte ho scoperto poi che questo reportage è solo l'ultimo di  una lunga serie: Nairobi, Ossezia, Gaza, Giappone, Libano, Iran sono solo alcuni dei teatri del mondo visitati dal nostro cartoonist.

Disegno di Chappatte

L'intero reportage sulla Tunisia lo potete trovare, in lingua francese, sul sito del quotidiano Le Temps in questa pagina, oppure, naturalmente in italiano, acquistando Internazionale di questa settimana.
Una breve considerazione finale: come mai bisogna andare a cercare i giornali stranieri per trovare un reportage giornalistico a fumetti, mentre i nostrani La Repubblica, Il Corriere della Sera o La Stampa, solo per citare i più diffusi, non sanno nenche cosa sia il termine Graphic Journalism o, se lo sanno, lo ignorano bellamente? Forse non immaginano neppure la potenzialità informativa e di approfondimento (lasciando da parte il valore artistico) che può avere un reportage realizzato attraverso i fumetti. Probabilmente non lo considerano degno di essere pubblicato accanto agli articoli scritti.

giovedì 24 febbraio 2011

Le mille storie di Julia

Julia 149 - Le lancette del destino. Copertina: Marco Soldi

Ne parlo solo ora, dopo un anno di apertura del blog: mi son reso conto di non aver dedicato nemmeno un post a Julia, uno dei miei fumetti preferiti, scritto da Giancarlo Berardi e pubblicato da Sergio Bonelli Editore. Eppure è un albo che mi accompagna ormai dall'ottobre del 1998 quando l'autore di Ken Parker tornò dall'editore milanese con un nuovo personaggio. Ne parlo ora perché il numero uscito in edicola in febbraio, intitolato Le lancette del destino, è un piccolo capolavoro.
E' una tipologia di storia nella quale Berardi è un maestro, e che tante volte ho ammirato leggendo la saga di Lungo Fucile. Si tratta di una di quelle narrazioni in cui il protagonista non è il personaggio cui è dedicata la serie, bensì compaiono sulla scena un insieme di persone di cui si narra un pezzo di vita. In altre parole è una storia corale, dove Julia è una in mezzo a tanti. Berardi fa emergere le storie di persone normali dosando con equilibrio e ritmo lo spazio dedicato ad ognuna di esse. C'è una colonna sonora, come spesso succede nelle storie di Julia, a far da sfondo comune alle vicende dei personaggi: in questo caso è quella di una stazione radio cittadina su cui son sintonizzati gli apparecchi radiofonici degli ambienti in cui si muovono i protagonisti. C'è una mattinata piovosa come tante, in una città come tante. C'è la gente che va al lavoro con la metro, c'è lo sciopero degli autobus, il traffico bloccato. Scene di vita urbana quotidiana. I destini si incrociano tragicamente in un ufficio postale, un altro luogo pubblico molto comune, nel quale i protagonisti si trovano gomito a gomito a far la fila allo sportello, o negli uffici retrostanti.

Julia 149 - Le lancette del destino. Sceneggiatura: Berardi / Calza. Disegni: Piccoli
 
C'è spazio anche per una lezione di Julia all'università nella quale, esponendo le differenze fra Freud e Jung, la nostra coglie l'occasione per spiegare ai suoi studenti quali siano gli strumenti che un criminologo usa nelle sue indagini, ovvero profilo psichico e analisi del contesto ambientale. 
"Simboli, sogni, libido, inconscio. Questo è l'universo di chi uccide, che porta alle estreme conseguenze ciò che è dentro ognuno di noi..."
In queste parole pronunciate da Julia sta la chiave e il nucleo dell'intera serie. Berardi, attraverso il suo personaggio, ci parla del disagio che pervade gli uomini e le donne che vivono nella società contemporanea. Quel disagio psichico che porta alcuni fra noi a compiere azioni criminali, che recano offesa, danno e morte ad altri. Il lato oscuro presente in ciascuno di noi viene raccontato senza moralismi: Julia non incontra lungo la sua strada dei mostri o dei folli, come spesso le cronache si affrettano a definire gli autori di atti efferati più per un meccansimo psicologico di difesa che per una reale analisi dei fatti. Julia affronta persone che per mille motivi agiscono in modo tremendo e cerca di porli di fronte alle proprie responsabilità. E questo accade anche nell'ufficio postale di Garden City, dove Julia si trova faccia a faccia con una donna che odia se stessa molto più delle sue vittime.
Coadiuvato nella sceneggiatura da Lorenzo Calza e affidatosi per i disegni all'ottimo Claudio Piccoli, Giancarlo Berardi ci offre un piccolo gioiello a fumetti. L'aspetto straordinario è che non è un fatto isolato: Julia è l'esempio di come un fumetto seriale possa raggiungere degli standard elevati di qualità pur sottostando all'incombenza temporale dell'uscita mensile. Come ha fatto con Ken, anche con Julia Berardi riesce a raccontare delle storie in cui prevale l'umanità dei personaggi, e lo fa con quella sensibilità, cura e attenzione che i suoi lettori gli riconoscono ormai da molti anni. L'aspetto però che più rincuora, come testimoniano le lettere pubblicate nella rubrica della posta Il Diario di Julia, è vedere come sempre nuovi e giovani lettori vengano conquistati dal personaggio. E questa è senz'altro un'ottima notizia.

sabato 19 febbraio 2011

Due tavole per una rivoluzione

Due tavole a fumetti possono descrivere efficacemente una rivoluzione? Sì, se a farlo è Othman Selmi, giovane illustratore e fumettista tunisino, i cui disegni sono pubblicati questa settimana dalla rivista Internazionale, nella sempre interessante rubrica Graphic journalism. La rivoluzione raccontata attraverso il linguaggio delle nuvole parlanti è quella che ha trasformato il paese dell'autore nell'ultimo mese, aldilà di ogni previsione degli occidentali, contagiando poi il vicino Egitto e, in queste ore, la Libia e il Bahrein.
Personalmente, ho capito molto di più di ciò che è accaduto nel paese nordafricano dal reportage di Othman Selmi, che non da molti quotidiani e telegiornali di casa nostra.
Ecco le due tavole del fumettista, dominate da caldi colori che virano dal rosso della bandiera tunisina.

Disegni di Othman Selmi, da Internazionale 885 del 18 febbraio 2011
Disegni di Othman Selmi, da Internazionale 885 del 18 febbraio 2011

La copertina dell'attuale numero di Internazionale è dedicata alle due rivoluzioni che hanno cambato la storia di Tunisia ed Egitto. All'interno ci sono, oltre all'articolo grafico di Othman Selmi, interessanti scritti di Olivier Roy, Ahmed Rashid, Amira Hass e Slavoj Žižek.


Di questi fatti, ispirati da un anelito laico alla libertà e alla giustizia, il filosofo sloveno scrive su The Guardian, nell'articolo riportato sulla rivista:

"... Quando un regime autoritario si avvicina alla crisi finale, la sua dissoluzione, di regola, segue due fasi. Prima del vero e proprio crollo, si verifica una misteriosa rottura: tutt'a un tratto la gente si rende conto che il gioco è finito, semplicemente non ha più paura. Non solo il regime perde ogni legittimità, ma il suo stesso esercizio del potere è percepito come un'impotente reazione di panico. In una scena tipica dei cartoni animati, un personaggio raggiunge un precipizio ma contnua a camminare, come se avesse ancora la terra sotto i piedi. Comincia a cadere slo quando abbassa gli occhi e vede l'abisso. Quando perde la sua autorità. è come se il regime fosse sopra il precipizio: per farlo cadere, bisogna solo ricordargli di guardare in basso ...."

martedì 15 febbraio 2011

KP 5: "Chemako", colui che non ricorda

Titolo: "Chemako", colui che non ricorda
Data: Ottobre 1977

Soggetto/Sceneggiatura:
Giancarlo Berardi
Disegni/Copertina:
Ivo Milazzo




In seconda di copertina una canzone d'amore Nahuatl con il consueto disegno di Ivo Milazzo  per la rubrica "Tracce nel vento"



"Sto pensando al passato...Molte primavere fa, quando ero un bambino, ospitammo nel nostro vilaggio un vecchio crow che aveva perso la memoria.. Lo chiamavamo Chemako, "colui che non ricorda", e gli anziani lo tenevano in gran conto perché, dicevano, il suo cuore batteva vicino al Grande Spirito..."


Così viene presa la decisione di chiamare Ken nel villaggio degli Hunkpapa.
Siamo di fronte al primo capolavoro della serie. In questo albo c'è tutto. C'è tutto quello che succede nella vita: c'è l'amore, la fedeltà, il tradimento, la paura, il coraggio, la viltà, l'amicizia, l'ironia, la favola, il sogno, la vigliaccheria, la maternità, la famiglia, la morte. Berardi crea la storia perfetta. Porta Ken e Belle, due bianchi, dentro un villaggio indiano. Li fa vivere lì per un anno: fa perdere loro tutto quello che erano prima, toglie loro la sovrastruttura lasciando solo la persona. Fa rinascere due individui in una nuova realtà completamente diversa da quella da cui provengono: mostra come la civiltà dell'uomo bianco sia inconciliabile con quella dell'uomo rosso. Ken ha perso la memoria, Belle viene rapita, lui non ha niente da dimenticare, lei tutto. Ma la strada che compiono ha la stessa meta: entrambi entrano a far parte della comunità che li ha ricevuti contando solo sulla propria identità più profonda: Ken non è uno scout e Belle non è la moglie di un chirurgo, sono due persone che vengono accolte per la loro umanità.
La sceneggiatura è un capolavoro anch'essa: alterna momenti di ironia ad altri drammatici, scene di vita indiana nel villaggio al clamore della battaglia, la dolcezza di un bacio e la tenerezza di un sorriso alla tragedia dell'assassinio.
La vita di Ken viene nuovamente travolta, dopo i fatti del numero passato. Qui ancor di più: entra in scena il figlio adottivo, che ritroveremo molti anni dopo a Boston.
E' un albo che non si può raccontare, ma solo leggere. E ammirare nei suoi disegni.
Ne propongo alcuni.


Disegno di Ivo Milazzo: gli Hunkpapa comandati da Ottawa attaccano la colonna di militari che scortano Belle


Disegno di Ivo Milazzo: Belle cerca di fuggire


Disegno di Ivo Milazzo: l'ingresso trionfale al villaggio indiano


Disegno di Ivo Milazzo: i soldi non valgono quanto il coraggio


Disegno di Ivo Milazzo: Chemako e Theba al villaggio


Disegno di Ivo Milazzo: Chemako non sa più chi sia


Disegno di Ivo Milazzo: Theba sceglie il suo futuro papà


Disegno di Ivo Milazzo: Belle è scappata finendo in mano di bianchi "selvaggi"


Disegno di Ivo Milazzo: Kianceta e Ottawa


Disegno di Ivo Milazzo: la madre di Theba, Tecumseh, invoca Wakan Tanka per il suo sposo Chemako


Disegno di Ivo Milazzo: Tecumseh e Chemako sono sposi


Disegno di Ivo Milazzo: Kianceta, Ottawa, Theba e Chemako


Disegno di Ivo Milazzo: la morte di Tecumseh per mano dell'uomo bianco


Disegno di Ivo Milazzo: la morte di Ottawa per mano dell'uomo bianco


Disegno di Ivo Milazzo: Chemako, Belle, Theba e il figlio di Belle e Ottawa fuggono nella tormenta


Disegno di Ivo Milazzo: Ken sogna Donald Welsh


Disegno di Ivo Milazzo: Ken ricorda


Disegno di Ivo Milazzo: Ken affida Theba a Belle

domenica 13 febbraio 2011

La promessa di Gregg

Gregg Allman

Era il 1959, un pomeriggio nella segregazionista Nashville, Tennesse. Un cantante nero sta incendiando il pubblico del suo concerto: si chiama B.B. King, un'esplosione sonora che cambierà per sempre la vita di due ragazzini bianchi della Florida. Sono lì, a bocca aperta: Duane, 13 anni e il fratello Gregg, di un anno più giovane. Sono travolti dall'impeto della band, catturati dal sound, investiti dalla folla che balla, si agita e canta. Il fratello più grande allora si rivolge al piccolo e gli dice: "We gotta get into some of this". E lo fecero.
Fondarono 10 anni più tardi la Allman Brothers Band, la più grande band di southern rock, ovvero di quella miscela esplosiva di rock, blues, country e jazz che costituì una novità nel panorama musicale americano dell'epoca. Duane alla chitarra e Gregg all'organo, tastiere e voce si unirono ad altri musicisti creando qualcosa di unico, immortalato da molte registrazioni live, tra le quali quello che viene considerato il più grande disco doppio live della storia del rock, At Fillmore East, registrato il 12 e il 13 marzo del 1971 in quel ex teatro yiddish che divenne poi "The Church of Rock and Roll". Nelle due serate i fratelli Allman eseguono pezzi blues e rock classici, e altri di loro composizione, abbandonandosi in lunghe ed indimenticabili jam session.

La copertina del disco live At Fillmore East

L'anno precedente Duane si era unito ad Eric Clapton e al suo gruppo dell'epoca, The Derek and the Dominos, partecipando alla registrazione del disco Layla and Other Assorted Love Song. E' di Duane lo strepitoso assolo di chitarra con cui si apre la famosa canzone di Clapton, Layla. Ed è stato questo, per me, lo stimolo a scoprire gli Allman Brothers. Da fan di Slowhand, rimasi sorpeso dall'apprendere che il travolgente assolo non era opera del bluesman inglese, ma di questo ragazzo del sud degli Stati Uniti. Fu così che, su consiglio di Paolo Carù, titolare dell'omonimo negozio di musica e libri di Gallarate, nonché uno dei fondatori di uno dei migliori periodici italiani di informazione rock, Buscadero, acquistai il suddetto live At Fillmore e mi innamorai della musica degli Allman.


Il successo mondiale fu funestato da un tragico evento che segnò per sempre la storia della band e quella personale di Gregg. Nell'ottobre del 1971, durante una pausa dalle registazioni di un nuovo disco, Duane muore in un incidente stradale, mentre sta guidando la sua Harley. Il disco viene ultimato in un clima di disperazione tremenda: Eat the Peach, questo il titolo, viene pubblicato nel febbraio del 1972, diventando un successo planetario. Le disgrazie per il gruppo purtroppo non finiscono: nel novembre dello stesso anno, il bassista Berry Oakley muore in un incidente motociclistico.
Gregg quindi ne ha viste tante nella sua vita: dal padre assassinato, alla morte violenta del fratello e di Oakley. La band viene sciolta e ricostituita più volte. Oggi il gruppo esiste ancora ed è sorretto da due splendidi chitarristi: Warren Haynes e Dereck Trucks, alle cui performance ho avuto la fortuna di assistere durante un concerto di Clapton, cui Trucks prestava la sua chitarra e la sua mano.
Fra le tante avversità che Gregg ha conosciuto c'è stato anche il tumore al fegato, diagnosticato tre anni fa, e il successivo trapianto dell'organo. Dopo due anni di vita da zombie, come l'ha definita lui stesso, Gregg è ritornato sulla scena registrando un nuovo album che, nello stesso tempo, mantiene anche la promessa che i due fratelli si fecero da ragazzini in quel famoso cncerto di B.B. King a Nashville. Infatti Low Country Blues è un omaggio intenso alla musica che gli ha segnato la vita: il blues che conobbe dal vivo in modo così travolgente in quel concerto, e che era solito ascoltare insieme a Duane alla radio da una stazione proprio di Nashville che trasmetteva solo blues.


In Low Country Blues troviamo un Gregg Allman che rende il suo tributo alla musica che lo ha fatto crescere, eseguendo alla grande dei classici di B.B. King, Muddy Waters, Junior Wells, Skip James, Otish Rush e altri. La sua voce decisa è accompagnata da musicisti di primo rango, come Dr. John al piano e Doyle Bramhall II alla chitarra solista (il "tamarro" di talento anch'egli visto insieme a Derek Trucks nello stesso concerto di Clapton a cui ho accennato sopra).
Cinquant'anni dopo Gregg ha realizzato il disco che avrebbe voluto fare insieme al fratello Duane.

Gregg Allman

martedì 8 febbraio 2011

La Grande Menzogna è dura a morire

C'è un testimone ideale che si scambiano reciprocamente Il Complotto di Will Eisner e Il Cimitero di Praga di Umberto Eco. Il secondo si potrebbe vedere come il prequel del primo, essendo I Protocolli dei Savi di Sion il punto di unione fra le due opere. Appena ho conluso la lettura dell'appassionante romanzo storico dello scrittore piemontese, son corso a cercare sugli scaffali della mia libreria il fumetto dell'autore americano e ho scoperto (fatto di cui mi ero completamente dimenticato) che l'introduzione all'edizione italiana per l'Einaudi del 2005 è stata scritta proprio dal celebre filosofo-semilogo italiano.
L'interesse di Eco per il tema è evidente: nell'introduzone al fumetto egli cita alcuni dei personaggi storici realmente eistiti con cui poi il protagonista del romanzo, la spia e falsario antisemita Simone Simonini, interagirà. Sono autori di testi romanzeschi dai quali, nella finzione di Eco, Simonini estrarrà frammenti e si ispirerà per produrre un documento che poi cederà a colui che, storicamente, si è accertato essere l'autore dei Protocoli, il falsario e spia russa Mathieu Golovinskj. Nell'introduzione viene involontariamente citato anche il titolo del futuro romanzo, quel cimitero di Praga che, nell'opera di uno scrittore tedesco, viene definita come la sede dell'incontro fra i rabbini capi delle varie comunità europee della diaspora ebraica, durante il quale venne elaborato il diabolico piano di conquista del potere mondiale.

Nella finzione del libro di Eco, il romaziere tedesco ruba l'idea a Simonini, il quale l'aveva presa a sua volta da un romanzo di Eugene Sue, L'ebreo errante, che tuttavia vedeva il cimitero praghese come teatro di una cospirazione gesuitica. Il romanzo di Eco può essere visto quindi come la storia della costruzione di un falso, di uno dei più tragici e densi di nefaste conseguenze che la storia dell'umanità abbia conosciuto, redatto a partire da fonti diverse ed estranee al mondo ebraico, nato dall'odio antisemita e diretto ad alimentarlo ancor di più.
Scrive Eco, sotto le spoglie del narratore, alla fne del suo romanzo, a proposito del protagonista: "...Simone Simonini, benché effetto di un collage, per cui gli sono state attribuite cose fatte in realtà da persone diverse, è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi."
Will Eisner si sofferma inizialmente su Golovinskj e sul suo lavoro nella polizia segreta zarista per screditare gli ebrei, e poi sul successo che i Protocolli conobbero nel corso del Novecento, essendo pubblicati in tutto il mondo e ispirando piccoli e grandi gruppi di antisemiti, compreso il nazismo hitleriano. Nella parte finale del fumetto vediamo lo stesso Eisner che, mentre sta realizzando il suo libro fra il 1993 e 2002, rimane stupefatto per la pubblicazione che i Protocolli continuano ad avere in giro per il mondo, nonostante la più volte dimostrata falsità, e per il meccanismo psicologico irrazionale che spinge le persone a crederci.

Will Eisner svolge delle ricerche per il suo fumetto

La prefazione, scritta dallo stesso Will Eisner si apre e si chiude con questi due capoversi che esprimono molto chiaramente il coinvolgimento totale che catturò l'autore nel compimento della sua opera.

"Con Il Complotto per la prima volta non ho usato il fumetto per raccontare una storia inventata. Stavolta ho tentato di impiegare questo potente mezzo di comunicazione per affrontare un tema che ha un'importanza fondamentale nella mia vita...."

"...Per tutta la mia carriera ho sempre raccontato storie usando l'arte del fumetto. Ora che quest'arte è universalmente accettata anche nell'ambito della letteratua popolare, si presenta l'opportunità di contrastare questa propaganda con un linguggio più accessibile. La mia speranza è che questo lavoro possa contribuire a distruggere questo inganno terrificante".

A poca distanza di tempo dal Giorno della Memoria, ricordare quest'opera a fumetti mi sembra ancor più necessario, perché, come conclude Eco la sua introduzione a Il Complotto, "...malgrado questo coraggioso e non comic ma tragic book di Will Eisner, la storia non sia ancora finita. Però vale la pena continuare a raccontarla, per opporsi alla Grande Menzogna e all'odio che essa continua a incoraggiare."

venerdì 4 febbraio 2011

Un'eredità pesante


E' quella che il torturatore Aaron Guastavino ha lasciato al figlio Elvio, un'eredità terribile, un peso sulla coscienza, una bestia scura che divora la debole psiche del grigio e pavido impiegato di mezza età Elvio. Un'eredità senza possibilità di redenzione: l'unica soluzione ammessa sarà la tragica espiazione finale, con l'annullamento della propria identità in quella ingombrante del padre e la conseguente morte.
E' stata la lettura della rivista Animals a stimolarmi l'acquisto di L'eredità del colonello, di Carlos Trillo autore della storia e di Lucas Varela responsabile dei disegni. Avevo letto due brevi racconti di Trillo pubblicati su due numeri diversi del mensile a fumetti, di cui avevo poi parlato qui, ambientati durante i bui anni della dittatura argentina.


Devo dire però che questo romanzo a fumetti mi ha colpito come un pugno nello stomaco. Non che non conoscessi i fatti storici che costituiscono il tema dell'opera, ma la rappresentazione dell'orrore che ne fa Trillo è veramente particolare ed efficace.
Seguendo l'evoluzione dello sconvolgimento psichico di Elvio, accompagnato dai suoi frequenti flash-back/deliri con cui rivive i momenti terribili dell'infanzia e dell'adolescenza quando assisteva alle torture del padre nei confronti di sospetti prigionieri politici, Trillo ci trascina in un pozzo nero abitato da orrore e depravazione. L'effetto ancor più dirompente nella coscienza del lettore è ottenuto dal disegno che ha un tratto grottesco, quasi caricaturale a volte, ma che fa risaltare ancor di più l'efferatezza degli atti e il successivo dolore.
Ammetto di aver chiuso il libro con un certo sollievo, dovuto al fatto di aver finalmente terminato una lettura così dura e pesante. Trillo ha quindi colto nel segno, perché immagino che fosse proprio quello che voleva provocare nel lettore: urtarlo profondamente nella sua coscienza per ricordargli ciò che è stata la dittatura argentina, quale sia stato il carico di orrore e morte, quale sia l'abiezione che si nasconde dentro l'uomo.

mercoledì 2 febbraio 2011

Quanto dista Angouleme dall'Italia?

Sono Cinquemila chilometri al secondo quelli che separano un sogno dalla realtà, Angouleme dall'Italia, il profeta dalla sua patria che lo misconosce. Sono trascorse poche ore dall'assegnazione a Manuele Fior del premio per il miglior fumetto al Festival International de la Bande Dessinée di Angouleme, in Francia, la manifestazione di fumetti più importante al mondo. E gli autori nostrani di nuvole parlanti e i loro appassionati fanno festa, ma sono soli. Nessuna traccia sui giornali o su altri mezzi di comunicazione. Il mondo della cultura italiano e l'Italia in genere non sanno cosa è successo, ignorano. Come dice Matteo Stefanelli qui, il festival di Angouleme è la terza manifestazione culturale in Francia, dopo il Festival del Cinema di Cannes e il Festival del Teatro di Avignone. Mutatis mutandis è come se un film italiano vincesse a Cannes, eppure il clamore suscitato in patria dalla vittoria di Manuele Fior è quasi inesisistente. Scontiamo sempre il pregiudizio tutto italico che considera il fumetto come un'arte di serie B. Eppure il racconto di Manuele Fior riesce a toccarti per la sua semplicità, perché parla di sentimenti come l'amicizia e l'amore in un modo vero e diretto: ti coinvolge perché sembra parli di te. Ho letto il libro solo qualche settimana fa, ma credo che se lo avessi fatto prima, la mia personale classifica del 2010 sarebbe stata diversa...
Un altro motivo per cui gioire è che, sempre al festival di Angouleme, un altro italiano è stato premiato nella sezione Patrimoine, il compianto maestro Attilio Micheluzzi, di cui in Francia è stato riedito Bab el Mandeb, volume che devo ancora leggere e che acquistai qualche tempo fa su consiglio del saggio signor Fontana di NonSoloLibri di Trieste.
La distanza fra Angouleme e l'Italia è tanta, ma albi del genere non possono far altro che accorciarla....

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